| 
			 Dalla
			prima fiaba decifrata, ho sempre cercato il Luogo eroico in cui,
			insieme adaltre, colte, fantasiose o pragmatiche, canore o
			furibonde, mute, in risa o lacrimanti, speranzose, imbronciate,
			decrepite o puberi, atteggiate o disinvolte, in ogni caso
			disponibili, lavorando sodo e con criterio le parole, ritessere
			segretamente la vita. 
Scoperto il Luogo, possiamo imbandire
			io e le mie sorelle, impalpabili infiniti “pranzi di Babette”,
			ingredienti le parole, morte o appena nate, dimenticate o logore
			per l’uso, raccolte dalla sapienza ma individuate dal nostro
			cuore e sostenute da una severissima vocazione. Meta di questo
			mistico camangiare è l’attuazione di una Nuova, che, per
			bellezza, profetazione, antinomia e, dunque, gioia di libertà,
			sveli, anche solo per una frazione illusoria, l’enigma della
			Natura, la Grande Dea Madre, che ci richiama oggi alla luce
			protagoniste, dagli ànditi sotterranei dove il nostro Pensiero,
			la nostra Etica, fingevano di sopire smembrate da tutti gli
			“episcopi”. 
Il Luogo è la Poesia, ma c’è da capire
			quale. 
Ci fu un Tempo mitico in cui la società patriarcale,
			sopraffatta dai “nuovi barbari”, consegnò il Vello nelle mani
			di Giasone e nascose il significato del Graal dentro il
			tabernacolo. Rimise i propri simboli affinché non fossero
			cancellati e, con essi, affidò anche le arpe e le cetre, i
			monogrammi arborei, l’astratta procreatività di un alfabeto.
			Gli uomini, intuendone il valore, cercano di appropriarsi di tutto
			ciò, ma invano Orfeo volle riportare in vita la sua
			ispiratrice. 
Ormai, Poesia significava cercare lei, ovunque
			ne indovinasse traccia, o tentare di sostituirvisi, per avvertire
			sempre, come meravigliosamente sintetizza Juan Ramon Jiménez
			“Solo queda en mi mano / la forma de su huida!” 
I
			millenni trascorsi da allora non hanno fatto che rieditarne
			l’essenza e oggi il suo Luogo è “in ricostruzione”, ve
			l’assicuro, io sono una specie di capomastro e i miei operai,
			per adesso, solo le poche tracce e i frammenti di quelle infinite
			donne che compongono la sola, unica, eterna. 
Ma questo
			nostro Luogo della Poesia si compirà, anche per mano vostra, care
			lettrici! Basta vigilare sugli archetipi che ogni linguaggio
			contiene, ripercorrere i miti con Robert Graves, il poeta autore
			di “La Dea Bianca”, accostarsi ai testi prebiblici e induisti,
			nonché, più semplicemente, sentire l’io Luogo della parola
			rinata. Se un critico letterario ricercherà in questa Poesie
			analogie con l’altra (quella patriarcale) fallirà.
			Apparentemente, dopo le opportune analisi, secondo le leggi
			catalogiche, tutto è riconducibile ad una comparazione, però qui
			equivarrebbe a mettere a confronto una situazione reale con una
			virtuale. Ecco.Perché preferire l’imitazione virtuale quando
			l’astrazione della Poesia che riabbraccia il genere primigenio
			della parola-poesia. Siamo al chiarirsi del mistero: IMMACOLATA
			CONCEZIONE. E’ forse il verbo che innocentemente si è fatto
			donna e il VERBO è l’ostia che contiene il corpo prolifico di
			una madre che può concepire, sia pure con disagio, il piacere
			morale antitesi alla morte, rivelatore della morte, naturalità,
			crescita, acme, senilità saviezza. Per Umberto Eco è una colomba
			che sorvola l’isola del giorno prima, l’ultima delle colombe
			che accompagnavano le dee procreatrici, la prima veggente fra gli
			accademici a favore popolare. 
A proposito di accademici, ho
			scoperto la pubblicazione di una tesi di laurea su Spazia
			d’Alessandria, mi sono servita di questo libro per trarre il
			profilo a un personaggio così fondamentale per la nostra ricerca.
			L’autrice si chiama Gianna Beretta, è di Milano, è una delle
			nostre senza conoscerci. 
Stefania
			Cavazzon 
		 | 
		
			 Colloquio
			tutto particolare quello avviato tra poesia e immagine in queste
			pagine. Ad allontanare ogni rischio di un convenzionale incontro
			d’occasione la condizione biografica dei due interlocutori:
			parola e icone si confrontano in un dialogo, segnato a volte da
			silenzi, da incomprensioni, da improvvise tangenze, da comuni
			intuizioni, un dialogo che al di là della differenza dei modi e
			degli strumenti del comunicare, trova una sua giustificazione più
			profonda nel desiderio di racconto dei due fratelli. I disegni di
			Giovanni Cavazzon sembrano voler dare corpo, consistenza visiva
			alle tappe di un percorso che si pone anche, credo, come
			inevitabile viaggio autobiografico, senza tuttavia tentare alcuna
			impossibile prova di trascrizione o analogia strutturale: il punto
			di tangenza tra pittura e poesia nasce dalla possibilità di
			evocare un se pur lontano e simbolico "ritratto", di
			portare in superficie un frammento di identificazione destinato a
			slabbrarsi nel vuoto del foglio bianco. Le "parole"
			dell'immagine sono carpite dal vocabolario della storia e si
			trasformano in un fluire della linea di cadenze Art Nouveau;
			Cenerentola cita "Il ragazzo morso da un ramarro", la
			canoviana Giulia espone l'esasperato turgore delle labbra,
			Cleopatra e Lucrezia trovano nel contrasto tra l'illusionismo
			fotografico del volto e il decorativismo piatto dell'acconciatura
			evocazioni klimtiane, mediate attraverso la messa in scena dei
			manifesti di Mucha, altrove la grafia sembra rimandare a memorie
			dureriane. L'impaginazione tuttavia di questi brani da ricomporre
			resta costantemente improntata alla ricerca di una evidenziazione
			di alcuni elementi significanti (la bocca, le mani, il volto), che
			conquistano l'attenzione dello spettatore attraverso la loro
			centralità, il loro risalto plastico, a volte l'esibizione di una
			sensualità rimarcata, ma sono destinati poi a subire un processo
			di metamorfosi, a perdere la loro fisicità per trasformarsi in
			materia altra, per divenire semplici ombre, per scomparire. E il
			disegno segue così la poesia nella segreta alchimia delle
			parole. 
Vanja
			Strukelj 
		 | 
		
			 
			Stefania
			e Giovanni Cavazzon, fratelli d’arte: lui sensibile ritrattista
			udinese, lei poetessa delicata e forte. Sta a Parma. Si sono
			incontrati nelle pagine a fronte, in un libro (Sorelle mie)
			dove ventun liriche di Stefania dedicate ad altrettanti personaggi
			femminili (un’appendice storica ne indica le linee essenziali)
			sono “ritratte” dal fratello. Un incontro annunciato: che
			Giovanni sia sempre stato affascinato dalla figura femminile non è
			una novità: ha ritratto donne famose come la Borboni o Dalila Di
			Lazzaro, ed è il suo drappo che ha accompagnato Paliodonna.
			“Parola e icone si confrontano in un dialogo, segnato da
			improvvise tangenze, da comuni intuizioni – scrive nella
			prefazione al libro Vanja Strukelj – un dialogo che,al di là
			della differenza dei modi e degli strumenti del comunicare, trova
			giustificazione nel desiderio di racconto dei due
			fratelli”.Ancora. “Il disegno cerca di seguire la poesia nella
			segreta alchimia della parola”, afferma il critico, rifacendosi
			alla tecnica, comune a versi e disegni, i evidenziare alcuni
			elementi significanti che poi scompaiono in una magica
			metamorfosi. Sono la bocca, le mani, il volto, un oggetto,
			un’ombra, un simbolo nei ritratti di Giovanni; è un’immagine,
			un ricordo, un momento della vita o – più spesso – della
			morte, che Stefania coglie nelle sue ventun donne. 
Donne non
			qualsiasi, anzi a dir il vero eccezionali: vittime eroiche come
			Anna Frank o feroci assassine come Leonarda Cianciulli che
			saponificò le pretendenti al figlio; figure storiche arcinote del
			passato e del mondo attuale, da Cleopatra alla Monroe “dalle
			aliciglia di visone”, a perle sconosciute della storia, tale
			Ipazia d’Alessandria, filosofa fatta a pezzi dai seguaci di una
			dottrina avversaria. 
Donne forti e tragiche, la Petacci
			(“utero tondo / cassato dal revolver”), la brigatista
			Margherita Cagol (“quel volo / dentro la morte armata”); ma
			anche figure della tradizione, viste in gustosa ironia, come
			Cenerentola, che manda a quel paese le pubbliche mondanità e se
			ne sta a casa a sognare presso il camino, o la Bella Addormentata
			che preferisce non essere baciata dal principe e continuare a
			dormire l’eterna giovinezza. 
E Giovanni, “Principe /
			talmente esperto / da non osare più baciarla”, attraverso la
			magia dei suoi tratteggi apre la porta a questo sogno vero, dove
			la donna non è più eterna Addormentata da una cultura che la
			domina e la uccide. La sua matita non teme, come la parola di
			Stefania si muove libera di creare, di infrangere “questo
			monolito / muta trama di sottraendi / sortilegio / senza corpo /
			senza nome” che è l’inscalfibile cardine del mondo
			maschile. 
Paola Beltrame, da
			“Nelle liriche e nei dipinti di Stefania e Giovanni Cavazzon -
			Ventun ritratti al femminile” 
			 
			 
		 |